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Sono in Tanzania. Mi sento a casa.
Io, che sono cresciuta credendo che i confini non dovrebbero esistere. Che tutte le persone dovrebbero avere accesso a una vita dignitosa. Che il divario tra chi ha troppo e chi ha troppo poco è una ferita aperta.
Qui in Tanzania vivo in una realtà in cui ogni giorno vengo accolta come una sorella. Ricevo sorrisi, abbracci e connessioni autentiche. Qui ho trovato una nuova famiglia, e mi sono ritrovata anche io.
Eppure, per quanto io cerchi di avvicinarmi con rispetto, empatia e ascolto, resto una “Mzungu”. La bianca. Quella che viene da un mondo che ha costruito il privilegio sulle spalle degli altri.
Anche se in Italia guadagno meno di 1000 euro al mese e non posso permettermi un affitto, qui questo è irrilevante.
Perché chi viene in Tanzania — spesso per safari, esperienze di volontariato o turismo “alternativo” — arriva con uno status che non si cancella con la buona volontà.
E questo status pesa. Fa storia. Lascia impronte.
Il white saviour complex (letteralmente: “complesso del salvatore bianco”) è un atteggiamento paternalista e coloniale che porta alcune persone bianche — spesso inconsapevolmente — a sentirsi in dovere o nel diritto di “salvare” comunità non occidentali.
Dietro il volontariato, le missioni umanitarie, le ONG, ma anche alcuni progetti artistici o turistici, si nasconde talvolta una dinamica di potere: chi offre aiuto mantiene il controllo, detta le regole, decide cosa è “bene” per l’altro.
Il white saviour complex si manifesta quando:
Mi sono sentita in bilico.
Tra il desiderio di connessione autentica e il rischio di colonizzare con la mia stessa presenza, con il privilegio sistemico che porto addosso, anche se non lo voglio.
Tra l’idea che “siamo tutti uguali” e la realtà che dice che non lo siamo, e che io posso partire, viaggiare, decidere.
Chi siamo noi, nei luoghi in cui andiamo?
Siamo disposti a non essere protagonisti delle storie che raccontiamo?
Chi decidiamo di ascoltare, e da chi pretendiamo di essere ascoltati?
Molti viaggiatori occidentali partono con le migliori intenzioni: conoscere, connettersi, capire. Ma anche il turismo più “consapevole” rischia, senza volerlo, di replicare vecchie logiche coloniali. In che modo?
Visitare un villaggio, assistere a un rituale tradizionale, dormire in una casa locale… possono sembrare esperienze autentiche. Ma chi ha davvero voce in queste situazioni? Le persone che incontriamo sono davvero felici di ospitarci o lo fanno perché non hanno alternative economiche?
Sono stata in un villaggio Maasai con un amico: erano suoi parenti, ci hanno accolti con calore, ma non lo rifarei. Mi sono sentita fuori posto, spettatrice di uno spettacolo pensato per noi. Le connessioni più vere le ho vissute altrove, in contesti spontanei, dove nessuno si sentiva in dovere di "mostrarsi".
Anche chi viaggia low-cost spesso dispone di più risorse rispetto a chi ospita. Questo genera squilibri: chi parte lo fa da una posizione di scelta, di privilegio. Anche se non lo percepiamo, questo peso c’è — e si sente.
Per esempio, io evito di parlare troppo dei posti in cui sono stata o delle mete future. Per chi mi ascolta potrebbe suonare come ostentazione. Per me è normale, ma per molti viaggiare non è un diritto, è un lusso irraggiungibile.
Volti di bambini, mani rugose, sorrisi spontanei… spesso immortalati per "documentare" l’esperienza.
Scatto pochissime foto. E quando lo faccio, è con persone che conosco, sempre chiedendo il permesso. Fotografare sconosciuti per strada, solo perché ci sembrano pittoreschi o autentici, mi sembra una mancanza di rispetto.
“Decolonizzare la mente” – Ngũgĩ wa Thiong'o
Un saggio fondamentale per comprendere come il colonialismo ha agito anche attraverso la cultura e il linguaggio. Perché il white saviour complex non è solo un atteggiamento individuale: è parte di una storia molto più grande.
White Saviorism in International Development: Theories, Practices and Lived Experiences
Themrise Khan, Kanakulya Dickson, Maïka Sondarjeeù
Dato il crescente interesse nel comprendere il significato, le manifestazioni e le implicazioni del razzismo nei rapporti Nord/Sud, White Saviorism in International Development colma le lacune della letteratura sugli studi dello sviluppo rispetto alla diffusione del white saviorism nelle iniziative occidentali nel Sud Globale. Il volume raccoglie contributi teorici, testimonianze e storie vissute di 19 autori e autrici del Sud Globale, offrendo un quadro articolato e sensibile delle forme, esplicite e implicite, di white saviorism nella cooperazione internazionale.